Rifiuti, le imprese tornano a farsi sentire con un messaggio forte e chiaro: vogliamo pagare il giusto, non un centesimo di più. E vogliamo poter scegliere sul mercato il servizio più conveniente, pubblico o privato che sia. La storia infinita della gestione rifiuti aggiunge un nuovo capitolo alla già lunga lista di quelli che lo hanno preceduto, e lo fa in calce alle richieste che Confartigianato, insieme alle altre associazioni, hanno sottoposto in una nota congiunta inviata al Ministero per la Transizione Ecologica.
Chiarezza prima di tutto, e chiare le imprese lo sono state: c’è una legge, in vigore dal primo gennaio 2021, ed è la legge che gli imprenditori vogliono applicare.
Ma andiamo con ordine, partendo dalle richieste. Confartigianato, oltre alla volontà di non far gravare sulle imprese costi non dovuti, al Ministero ha proposto di escludere dall’applicazione della parte fissa della Tari (Tassa rifiuti, ndr) le attività artigianali che producono in prevalenza rifiuti speciali, di allineare la legge del 2013 che ha istituito la Tari con le nuove disposizioni introdotte nel 2020 dal “Decreto rifiuti” e di ribadire che la nuova definizione di rifiuto urbano deve essere applicata per raggiungere gli obiettivi di tutela ambientale e non con il fine di stravolgere una gestione dei rifiuti già strutturata ed efficace.
Secondo Confartigianato e le altre associazioni datoriali questi chiarimenti sono indispensabili per evitare una distorta applicazione delle novità introdotte dal Decreto rifiuti, che rischierebbe di caricare sulle imprese un incremento di costi reso ancor più insostenibile dalla difficile situazione di crisi che il Paese sta vivendo. Il punto è questo: perché, se da un lato si potrebbe arrivare a una contrazione della parte variabile, dall’altro c’è il rischio che le amministrazioni possano ricalibrare al rialzo la parte fissa. Facendo rientrare dalla finestra ciò che la norma dovrebbe far uscire dalla porta. Questo è uno dei tasselli attorno al quale ruota la partita dei rifiuti.
Il secondo tassello riguarda la possibilità di rivolgersi al “mercato libero” senza dover ripiegare forzatamente sulla gestione pubblica (ammesso che non si riveli, sempre nel mercato libero, la più conveniente).
«Bisogna evitare – sostengono i rappresentanti degli artigiani e delle Pmi – di orientare forzatamente il mercato verso una gestione pubblica dei rifiuti prodotti dalle imprese, anche se ricadono sotto la nuova definizione di rifiuti urbani. In questo modo si creerebbe un ostacolo alla libera concorrenza, penalizzando una gestione a mercato dei rifiuti prodotti dalle imprese che in questi anni ha garantito significativi risultati di riciclo».
Fin qui il punto della situazione: le imprese chiedono di non vedersi ricadere addosso nuove spese e di poter beneficiare delle riduzioni previste dal Decreto 116. Il tutto senza erigere muri perché, ad oggi, la disponibilità al dialogo e alla trattativa non manca.
Per comprendere meglio quale sia la posta in gioco, occorre tornare alla data del primo gennaio 2021, giorno di entrata in vigore delle disposizioni introdotte dal Decreto Legislativo 116 del 26 settembre 2020 con cui è stato recepito il pacchetto di direttive europee sull’economia circolare. Dall’inizio del 2021, in parole povere, sono un vigore le nuove norme di classificazione dei rifiuti destinate ad allineare la normativa italiana a quella comunitaria ed è stato di fatto abolito dal Testo unico ambientale il concetto di assimilabilità dei rifiuti speciali agli urbani. Oggi le parole hanno un altro suono: i rifiuti sono classificati come urbani, domestici, simili ai rifiuti domestici e speciali (pericolosi e non pericolosi).
Ma cosa sono di preciso i “rifiuti simili”? Sono, nella sostanza, tutti quei rifiuti prodotti nelle aree di produzione – e tra queste vi sono le attività artigianali – e definiti nell’allegato L-quater della legge 116/2020 con apposito codice Cer (Catalogo europeo dei rifiuti), elencato nell’allegato L-quiniques.
Quel che in apparenza sembra semplice in realtà come spesso accade non lo è e, tra comuni e aziende, la confusione è tanta. Le imprese, sostenute da Confartigianato, ritengono che una azienda che produce un rifiuto simile possa affidarne il recupero a società private. E che, questo rifiuto, debba essere detassato dalla quota variabile della Tari.
Ad oggi sul tavolo del Ministero c’è l’ipotesi che, entro il 30 giugno, le imprese si impegnino a comunicare al Comune se desiderano beneficiare del servizio pubblico o se preferiscano rivolgersi ai privati, indicando tipologia di rifiuti, codici Cer e quantitativi. Ma a questa richiesta non si può che opporre una domanda: come può un’impresa prevedere tutto questo nel bel mezzo dell’anno? Tra l’altro, la legge di questa comunicazione non fa cenno.
Insomma, c’è ancora molta carne al fuoco, la trattativa è aperta, l’apertura al dialogo c’è, ma la posizione è ferma: le imprese vogliono pagare una tariffa corrispettiva la servizio erogato: quanto spetta, senza aumenti e all’operatore che sceglieranno sul mercato, pubblico o privato che sia come consentito dalla legge.