di Enrico Marletta
La promessa della rivoluzione digitale era quella di una società con maggiori opportunità. Anzi, di più, secondo i più ottimisti una serie infinita di opportunità. Ma sta andando davvero così? Chi ci invita alla cautela è Luciano Floridi, filosofo dell’Oxford Internet Institute, tra i massimi esperti della materia da diversi anni.
Professore, abbiamo a portata di mouse una quantità di informazioni e conoscenza come non è mai accaduto prima. Eppure la circostanza, spesso, non fa di noi persone più informate e consapevoli…
Sì spesso è così e io credo che in questo meccanismo c’entri innanzi tutto la fortissima commercializzazione del web. C’è in sostanza tanta pubblicità e la tendenza di quest’ultima è far sì che il potenziale cliente resti sempre uguale a sé stesso. Se ti voglio vendere un cane devo fare di tutto affinché tra qualche giorno non ti piacciano i gatti. La pubblicità vuole rinforzare le nostre scelte, non ha interesse a presentarci una varietà di opportunità. Ora, tutta questa informazione finisce per costringerci sempre di più nelle nostre “bolle” limitando la nostra capacità di vedere il mondo attraverso diversi punti di vista.
Vuole dire che eravamo più liberi e meno conformisti?
Attenzione, non è che prima andasse molto meglio. Si comprava magari sempre lo stesso giornale, si guardavano gli stessi programmi televisivi. È che in passato, mi permetta la battuta, non avevamo alternative, uno poteva dire “io sto nella mia bolla ma non è colpa mia”. Oggi invece abbiamo più responsabilità nel senso che se io sto nella mia bolla è anche perché non faccio la fatica di andare su un sito web diverso dal solito, fare magari una ricerca su Google per verificare se una certa notizia è vera o falsa.
Queste “bolle” che gli algoritmi del web ci costruiscono intorno sono una sorta di specchio di noi stessi….
Sì esattamente, una grande stanza piena di specchi che riflettono e deformano la nostra personalità. Le faccio un piccolo esempio: io sono un appassionato di squash, mi interesso delle racchette e delle partite… bene se io dovessi considerare solo Facebook il mondo che mi rappresenta gioca soltanto a squash, si interessa solo di questo e considera lo squash l’unico sport esistente. Ora questo meccanismo ha delle implicazioni un po’ preoccupanti, chi è più scaltro e attrezzato può riuscire da sé a comprendere che, giusto per restare all’esempio di prima, esiste anche lo sci. Ma gli altri?
Cambiamo prospettiva, proviamo a considerare questa situazione dal punto di vista di un investitore pubblicitario. Ora il grande vantaggio rispetto ai media tradizionali è quella di raggiungere il singolo potenziale cliente, ma qual è il limite?
Il limite è quello di non riuscire a sfruttare abbastanza la capacità della tecnologia di essere flessibile. Immagini che io sia un venditore di pacchetti vacanza, capisco che a Luciano piace il mare e continuerò a proporglielo in ogni salsa. Bene, forse, ma attenzione perché così facendo mi levo magari la possibilità di considerare che sì a Luciano piace il mare ma farebbe volentieri una seconda vacanza, al lago o in montagna. Ora, la tecnologia sta già diventando ad essere più flessibile, non si basa più solo sul profilo rigido degli utenti. Ma questo però è anche un po’ un guaio…
Un guaio?
È un po’ come se noi ci accontentassimo del buono e non guardassimo a quello che potrebbe essere meglio. È vero che c’è il detto popolare “il meglio è nemico del buono” ma non sempre. Ora noi ci stiamo perdendo grandi opportunità di fare di più e meglio perché ci siamo adagiati su quello che in inglese si dice “good enough” cioè abbastanza buono.
Ritiene che sia una relazione tra informazione digitale e diffusione dei populismi in politica?
Non credo a un meccanismo causa-effetto. Direi che i due fenomeni sono convergenti. Il punto è che la manipolazione dell’opinione del singolo individuo si manifesta sia sul versante dei consumi e sia su quello della politica. È del tutto evidente che in un contesto come l’attuale un politico avveduto non farà altro che attrarre l’attenzione, di giorno in giorno, su problemi semplici, macroscopici, un po’ urgenti, che richiedono pochissimo dispendio intellettuale. E allora oggi si parla solo di rifiuti, domani di immigrazione, dopodomani di no Tav. Pubblicità e politica, in un mondo digitale, sono vettori che funzionano in base alla stessa domanda di fondo: come si fa ad attrarre l’attenzione in una società dell’opulenza.
La conseguenza è il calo del livello del dibattito pubblico…
Certo, esattamente come la comunicazione pubblicitaria, sempre più sempliciotta e ripetitiva.
I media tradizionali possono sottrarsi da questo meccanismo?
No, i media tradizionali ne sono parte, pur essendone vittime. La testata giornalistica tradizionale si trova condannata o all’irrilevanza o all’omologazione rilanciando gli stessi meccanismi di attrazione che funzionano sul web.
E qual è la via d’uscita? Fare un passo indietro credo sia impossibile…
Sì, la retromarcia nella storia non si può mettere. Credo si debba andare più avanti, passare il guado e raggiungere l’altra riva del fiume, occorre che i grandi mass media entrino a far parte del meccanismo decisionale. Guardi che sto dicendo una cosa grossa perché significa sostenere che la politica, oggi, è in parte una questione aziendale. Immaginare che la politica da sola risolva il problema è illusorio, se ne uscirà quando la politica accetterà di condividere parte delle responsabilità con le multinazionali dell’informazione. E allora bisogna fare due cose: trasformare le multinazionali in good corporate citizens forzandole a partecipare al gioco sociale, dall’altra ripagarle coinvolgendole nel processo decisionale. Non è fantascienza, in passato qualcosa del genere è stato fatto in Germania nei grandi accordi con sindacato e industria automobilistica. Ecco è venuto il tempo di pensarci anche per i social media.