Vogliamo ricominciare e vogliamo farlo con il passo giusto, cercando di trarre lezioni positive da un momento di enorme difficoltà e provando a capire come modificare noi stessi e il nostro modo di fare impresa. Non saremo mai più come prima, lo diciamo da giorni, ed è proprio vero. Saremo diversi, ma come saremo? Quale futuro dovremo affrontare? Le imprese vogliono e devono sapere, perché è da loro che passeranno le chance di benessere di questo Paese. Per questo da oggi Confartigianato Imprese Varese pubblica contributi, opinioni e suggerimenti di esperti multisettoriali che, da qui alle prossime settimane, ci accompagneranno fuori dal lockdown. Nel mondo nuovo che tutti dobbiamo imparare a conoscere sin da ora.
Una ripresa lenta, a fasi alterne, con una forte settorializzazione dei lavori e la richiesta di professionalità pronte e dinamiche. In grado di portare valore aggiunto, con un grado elevato di competenze, alla nuova economia.
Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, traccia le direttive per il tessuto imprenditoriale post Covid-19: «Sarà fondamentale aprire un dialogo con le aziende e, allo stesso modo, diventerà cruciale creare un confronto strettissimo tra chi si occupa di formazione professionale, chi di servizi al lavoro e chi chiede le competenze (le imprese). Non ci sarà un click day che ci riporterà a come eravamo prima, ma non disperdiamoci in valutazioni catastrofiste: invece di investire sugli ammortizzatori sociali, si investa in formazione e sicurezza».
Professore, il rimbalzo post-crisi quindi si aggancerà alla conoscenza?
Senza dubbio. In un primo momento, se vogliamo parlare di forme contrattuali, riprenderà il lavoro interinale, quello a termine, di somministrazione, precario. Ma nello stesso tempo si svilupperà – moltissimo – il lavoro professionale, per l’appunto quello delle competenze, svolto da lavoratori autonomi. D’altronde, già oggi con il termine di partita Iva si identifica un professionista portatore di conoscenze specifiche di cui ci sarà bisogno per adattare il nuovo modello di sviluppo post-crisi.
Penso a chi sarà in grado di entrare in tutti quei settori, e svilupparli, legati al digitale, alla progettazione, alla formazione e al ridisegno delle strutture produttive. Già oggi il giovane è più interessato alle prospettive di crescita offerte dal lavoro che al tipo di contratto che gli viene proposto. E’ per questo che i giovani devono irrobustire le proprie competenze: siamo in un mercato in cui si cerca il lavoro specializzato, e quindi dobbiamo preoccuparci della nostra carriera in prospettiva. E la carriera dipende da ciò che possiamo spendere in competenze.
Quali i settori da tenere sott’occhio?
Il mondo del digitale avrà un’accelerazione fortissima, e proprio in questi ultimi tempi ci si è resi conto di quanto sia diventato un pezzo insostituibile della nostra organizzazione del lavoro e delle imprese. Penso anche allo sviluppo dell’e-commerce dovuto alle tante persone che, costrette in casa, hanno iniziato a scoprire questo modo di consumare. Anche in Italia si sta aprendo questo mercato che forse, fino a pochissimo tempo fa, era considerato ancora di nicchia. Ma ci sarà anche il mondo della logistica che, a cascata, sarà da rivedere. Ecco, in tutto questo si dovrà essere in grado di fornire risposte in termini di formazione professionale e competenze disponibili. Perché le imprese dovranno recuperare il terreno perduto e, di conseguenza, si moltiplicheranno le richieste di lavoro: è bene che queste realtà non si trovino senza le competenze necessarie che, ad oggi, in alcuni settori non sono presenti nelle quantità richieste.
Si può ipotizzare come sarà la ripartenza del tessuto economico?
Si dovrà gestire ancora l’emergenza recuperando un pezzetto alla volta quelle attività che sono state sospese. Dopo l’assestamento degli equilibri, allora riusciremo a gestire anche il cambiamento permanente che ci porteremo dietro. Ma fin dall’inizio della ripresa, che sarà molto concentrata, si dovrà essere preparati. D’altronde, la trasformazione del mercato del lavoro stava già avvenendo prima dell’epidemia: in una situazione choc come questa non c’è dubbio che ci sia uno spostamento verso le forme contrattuali di cui dicevo, ma dobbiamo anche convincerci del fatto che dobbiamo sfruttare il rimbalzo con le persone adatte. Se queste persone non ci saranno, qualcun altro si avvantaggerà al posto nostro.
Il mondo delle piccole e medie imprese ha sempre sostenuto e incoraggiato l’apprendistato: un modello valido anche per superare questi momenti?
Penso che nel suo Dna, l’apprendistato contenga la creazione del valore professionale. E’ una forma che è da considerarsi un vantaggio per l’impresa, perché si investe su un giovane che resterà in azienda creando valore (e con una minore incidenza sul cuneo fiscale); per le persone perché con l’apprendistato, che è un contratto a tempo indeterminato, si può accedere a tutte quelle garanzie che servono per vivere (un mutuo, per esempio) e perché i giovani acquisiscono quelle competenze che sono richieste dall’azienda in quel particolare momento; per il Paese, perché attraverso l’apprendimento si genere valore.
Però siamo lontani dall’esempio tedesco, non trova?
In Italia il contratto di apprendistato è ancora troppo burocratizzato, macchinoso e soffre della debolezza della filiera formativa professionale, sviluppata solo in alcuni territori ma non sufficiente per dare una risposta alla tedesca, dove gli apprendisti sono milioni e l’apprendistato è il tipo standard di inserimento lavorativo. Da noi, invece, ci sono una serie di adempimenti che spesso tengono lontano le aziende dallo sperimentare questo modello contrattuale. Soprattutto quello di primo livello che, lavorando, consente di completare e acquisire un titolo di studio e che è in grado di ridurre uno fra i grossi problemi italiani: la dispersione scolastica. L’apprendistato unisce il fare allo studiare (ma sarebbe bene che ci fosse un ulteriore taglio contributivo), e così recupera tanti giovani che hanno un rifiuto verso l’aula.