Responsabilità, visione del futuro, capacità di problem solving, di costruire alleanze, di motivare e di motivarsi. Sono solo alcune delle caratteristiche che sviluppa chi ha carichi di cura, specialmente chi diventa genitore: capacità che, le aziende se ne stanno accorgendo, fanno la differenza sul posto di lavoro. Ma per far fruttare queste trasformazioni positive è necessario un cambiamento culturale da parte di tutti: imprenditori, che devono saper cogliere e agevolare chi deve tenere insieme esperienze tanto forti fuori e dentro casa, ma anche lavoratori e lavoratrici, che devono ripensare i propri rapporti sociali, dalla famiglia agli amici, passando per colleghi e datori di lavoro.
Un cambiamento epocale, da cogliere il prima possibile, perché a lungo termine migliora non solo le prestazioni dei singoli lavoratori o delle singole aziende, ma anche il tasso di natalità, con tutto quello che ne consegue in termini di equilibrio sociale.
Tra i testi più conosciuti sull’argomento c’è quello di Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, “Maam – La maternità è un master che rende più forti uomini e donne”, ma ormai gli studi sul rapporto tra genitorialità e lavoro si moltiplicano. Ne parla anche Marita Rampazi, docente di Sociologia della Globalizzazione all’Università di Pavia: «Avere figli segna l’irreversibilità della condizione di adulto. Oggi averne è una scelta fatta il più delle volte con cognizione, una scelta che segna la capacità di assumersi delle responsabilità e una certa consapevolezza del proprio posto nel mondo: due caratteristiche fondamentali per un lavoratore, che lo rendono in grado di far crescere un’azienda».
RAGGIUNTA LA MATURITA’ PROFESSIONALE
La professoressa cita il lavoro di una collega, Sveva Magaraggia, che nel 2015 ha pubblicato una ricerca dal titolo “Essere giovani, diventare genitori”: «L’età media in cui si ha il primo figlio è in aumento. Questo significa che si arriva a diventare genitori in un momento in cui si è raggiunta una certa capacità professionale, competenze preziose. Per questo – continua la professoressa Rampazi – è importante per le aziende fare un passo verso questi lavoratori: le iniziative di welfare aziendale per favorire chi ha carichi di cura aiutano a tenere in azienda dei talenti, personale formato e che, in più, sta facendo un “master” efficacissimo tra le mura domestiche, in grado di sviluppare soft skills che possono diventare decisive per la crescita dell’azienda». Non solo: favorire la conciliazione vita-lavoro con iniziative concrete e orari flessibili restituisce alle aziende dipendenti più motivati, produttivi e “attaccati alla maglia”.
Lo conferma anche Sofia Borri, presidente di Piano C, un coworking che a Milano, oltre ad offrire spazi di lavoro condiviso a liberi professionisti in un modo pensato soprattutto per i neogenitori, porta avanti progetti volti al reinserimento delle donne nel mondo del lavoro. Non solo: una delle ultime iniziative è stata “Diamo voce ai papà”: una ricerca in cui la realtà milanese ha cercato di capire la visione dei “nuovi” papà, quelli che vogliono costruire un nuovo modo di essere padri, più presenti e collaboranti. Ma che si trovano a combattere, proprio per questo desiderio, contro stereotipi che li bloccano tanto quanto le loro compagne: «Da questa piccola ricerca è emerso un quadro che parla di un gruppo ben preciso, uomini che hanno un gran desiderio di condividere molto di più il carico di cura genitoriale, ma che non sanno ancora di essere una categoria vera e propria, che può chiedere di più, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti di conciliazione».
CONCILIARE E’ UN PROBLEMA ANCHE DA PAPA’
Perché, sempre di più, la necessità di coniugare i tempi di vita e di lavoro non può restare una cosa solo per donne. «Nel quotidiano del nostro lavoro lo vediamo – dice Borri – chi diventa genitore oggi ha bisogno di rinegoziare, di trovare nuovi equilibri. Al lavoro, sicuramente, ma soprattutto nella coppia. Nuovi modelli di paternità stanno venendo avanti: coglierli da parte delle aziende significa favorire tutti, uomini e donne, nella produttività e nella creatività sul lavoro. E anche nella felicità globale, perché non possiamo più pretendere che il lavoro sia una parte “a sé” della vita. Non lo è mai stato».
Le aziende, soprattutto Pmi, cosa possono fare? La risposta è banale a dirsi, molto meno da mettere in pratica: fare rete. «Per ora – conclude Borri – vediamo sempre più imprenditori che vanno incontro a queste esigenze, ma in modo spontaneo e isolato. Vanno aiutati con norme che li favoriscano». Secondo la professoressa Rampazi, si tratta di un processo «che si velocizza molto con il cambio generazionale. Anticiparlo porta vantaggi per tutti».