Alla lavoratrice madre il datore di lavoro deve garantire piene tutele. In alcuni casi però la legge consente, in deroga al divieto, il licenziamento nel periodo che va dall’inizio della gestazione (300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato medico di gravidanza) fino al compimento di un anno di vita del bambino. E’ l’art. 54 del D.lgs 151/2001 a elencare i casi nei quali è consentito al datore di lavoro di procedere al licenziamento della lavoratrice madre in questo periodo: la colpa grave della lavoratrice (giusta causa di risoluzione del rapporto), la cessazione dell’attività aziendale, e a seguito dell’esito negativo della prova.
Tutela della lavoratrice madre
La posizione della lavoratrice che si trova in queste condizioni è tutelata sotto l’aspetto delle dimissioni. La stessa tutela (entro un anno dalla nascita del bambino) viene riservata al padre che ha usufruito, in luogo della madre, del congedo per paternità per una delle cause che lo consentono (morte della madre, gravi condizioni di salute della stessa, allontanamento volontario dal nucleo familiare, affidamento giudiziale del bambino). L’eventuale licenziamento intimato durante il periodo di tutela legale è nullo. La nullità ha come conseguenza la reintegra nel posto di lavoro con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione per tutto il periodo in cui l’interessata è rimasta lontana dal posto di lavoro, con la possibilità per la stessa di non rientrare in servizio optando per il pagamento di ulteriori quindici mensilità.
Casi in cui è ammesso il licenziamento
L’art. 54 del D.Lgs. n. 151/2001 elenca i casi in cui il licenziamento è possibile:
- colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa di risoluzione del rapporto;
- cessazione dell’attività aziendale;
- termine della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o scadenza del termine nei rapporti di lavoro a tempo determinato;
- esito negativo della prova.
Per la prima ipotesi la Corte di Cassazione con sentenza n. 2004/2017 ha ricordato come l’art. 54 richieda che, per il licenziamento, non sia sufficiente la giusta causa ma che occorra un qualcosa di più rappresentato dalla “colpa grave”. La Cassazione, rinviando la questione ai giudici dell’appello ha affermato che “l’ambito di indagine rimesso al giudice di merito, al fine di stabilire la sussistenza della colpa grave costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro della lavoratrice madre, deve estendersi ad un’ampia ricostruzione fattuale del caso concreto e alla considerazione della vicenda espulsiva nella pluralità dei suoi comportamenti. Tale più esteso, articolato e completo ambito di indagine è conseguenza necessaria del carattere autonomo della fattispecie in esame e della sua peculiarità, in quanto la colpa grave, che giustifica la risoluzione del rapporto è quella della donna che si trova in una fase di oggettivo rilievo della sua esistenza, con possibili ripercussioni su piani diversi ed eventualmente concorrenti (personale e psicologico, familiare, organizzativo)“.
La seconda ipotesi riguarda la cessazione dell’attività aziendale. In questo caso la cessazione deve essere effettiva e non legata ad un semplice rischio di chiusura e lo stesso trasferimento di azienda con il mutamento delle mansioni non possono legittimare il licenziamento. In passato, era stata data anche una lettura estensiva della norma secondo la quale configurava la possibilità del licenziamento anche la cessazione di un ramo di attività o di un reparto autonomo dell’impresa a condizione che il datore comprovasse l’impossibilità del reinserimento in un’altra struttura o reparto dell’azienda. Tale indirizzo è stato, poi, abbandonato e la Corte ha ribadito la necessità di una cessazione totale dell’azienda.
Il terzo caso riguarda il termine della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o la scadenza del termine in un contratto a tempo determinato. Il primo si riferisce all’ipotesi del contratto a tempo determinato: la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento intimato in un appalto di pulizie, ove l’impresa subentrante aveva assunto tutti i dipendenti ad eccezione di una lavoratrice assente per maternità che aveva un contratto di assunzione a tempo indeterminato.
La quarta ipotesi riguarda l’esito negativo della prova. Il recesso risulta legittimo soltanto se l’imprenditore non è a conoscenza dello stato di gravidanza. La Corte Costituzionale ritiene che, in caso contrario, il datore debba motivare il giudizio negativo sull’esito della prova per permettere al giudice di valutare i motivi reali del recesso al fine di escludere che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza.
Un’ultima considerazione riguarda le lavoratrici domestiche in gravidanza: possono essere licenziate? La Corte di Cassazione ha affermato che il licenziamento non può essere ritenuto illegittimo in quanto l’art. 62, comma 1, del D.lgs 151/2001 prevede espressamente per le collaboratrici familiari l’applicazione degli articoli 6, comma 3, 16, 17, 22, commi 3 e 6, ma non dell’art. 54, comma 3, lettera a) che vieta il recesso del datore di lavoro durante il “periodo protetto”, fatta salva l’ipotesi di colpa grave costituente giusta causa. Quello che non è detto dalla legge, però, viene affermato dal Ccnl, il quale afferma che le lavoratrici in gravidanza non possono essere licenziate fino al termine del periodo di astensione per congedo di maternità, fatta salva l’ipotesi della giusta causa.